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martedì 15 marzo 2022

Montorfano, 27 maggio 1859: il tricolore, pazzo di gioia, sbatacchiato dal vento, garriva splendido sul campanile

Con la legge n. 222 del 2012 è stata istituita la "Giornata dell'Unità nazionale, della Costituzione, dell'inno e della bandiera" da celebrarsi il 17 marzo di ogni anno, nel giorno della proclamazione nel 1861 dell'Unità d'Italia. Noi lo facciamo ricordando un epidodio avvenuto il 27 maggio 1859 a Montorfano.

 

 

 

di Giordano, tratto da "La Provincia Illustrata. Numero unico degli studenti di Como" n. 17 del 28 aprile 1907

Sul limitar della Brianza, c’è una collinetta, un monticello isolato che da una parte guarda fiero verso le Prealpi, dall’altra par copra e protegga un laghetto grande appena a rispecchiarlo tutto; in mezzo, tra il lago e il monte c’è un paesello che timidamente si nasconde anche lui al resto del mondo e, monte, lago e paese par che dicano: “lasciateci in pace„.

Son come tre vecchi amici che si sian ritirati e facciali parte a sé; fanno pensare ai versi del Praga nella sua poesia “Brianza„:
        Nessun, ci toglie un angolo di terra
        Dove esperti del cuore e della vita,
        Dimenticar degli uomini la guerra.
        E prepararci insieme alla partita!


II paese, forse per adattamento all’ambiente, si va facendo del color fosco del monte, di quel povero monte brullo dove allignano solo pochi quercioli contorti e nodosi, e pel rimanente è tutto sassi e cave di calce; l’uomo lo mina di continuo, dall’ una parte e dall’altra, risuona senza posa lo scalpello e, tratto tratto, squilla la cornetta seguita dal fragor della ruina.
Il monte assiste alla sua lenta agonia, talora ha degli scatti, dei fremiti di moribondo: una notte, come sotto a un violento colpo di tosse, ha scaraventato giù, dall’alto d’una cava, due enormi massi fracassando le opere di distruzione e gli attrezzi degli uomini, ma essi, come formiche attorno al cadavere d’una lucertola, sono tornati all’assalto e chi sa che un giorno non si tendano la mano attraverso al monte forato. Il più giovane e vigoroso dei tre compagni pare il lago. Segue sereno le sue metamorfosi col mutar delle stagioni, e, dopo il periodo di letargo invernale, le tinte grigio-giallastre dei suoi canneti si rinverdiscono, si rinnovellano i suoi boschi, sulle sue sponde tornano in fiore i mandorli ed i peschi.

 

(Foto Carlo Cicardi, 1907)


Ci capitai in pieno inverno, sul tramonto; il lago era tutto un pezzo di ghiaccio, le ghiacciaie erano già piene e molto ce n’era accatastato sulle rive; tutto l’insieme offriva lo spettacolo di un paesaggio nordico a grand’ombre bluastre, su cui s’alzavano qua e là delle nebbioline grigie sullo sfondo di un tramonto a tinte d’arancio degradanti via via al violetto e, come ombre silenziose, i contadini scivolavano sul lago; nel mezzo d’esso, circondato da uno sciame di ragazzi, passava un carro a due ruote. Il cavallo che lo trascinava, insolito a quell’elemento, tentennava, sdrucciolava sulle zampe ferrate, e la gente intorno innalzava grida giulive che si sperdevano nell’aer bruno. Le tenebre intanto discendendo rapide toglievano i colori alle cose, che apparivano tutte uniformi, grigie, e risaltavano scure sullo specchio terso e lucente del ghiaccio. Il cavallo e il carro s’allontanavano lenti e le grida insiem con essi si perdevano nella lontananza e nell’oscurità crescente. Era la prima volta, a mente d’uomo, che un carro attraversava il lago


        ....................
        Undaquè iam tergo ferratos siistinet orbes,
        Poppi bus Hin prius patulis, nunc 'sospita plaustris.

 

>*<


Là nella gran calma d’estate, le rondini cinguettano alte nel cielo, poi, abbassatesi d’un subito, sfiorano la superficie del lago e si tuffano in quell’acqua divenuta tiepida per i bollori del sole; la barca aprendosi il passo a fatica tra i canneti ed entrando nelle insenature della riva, si trova come sopra a un gran tappeto verde-azzurro di larghe foglie di ninfee tempestate di fiori grandi e al rumore dei remi fuggono spaventati dai piccoli nidi a fior d’acqua i martin-pescatori su quelle sponde battute dal sole, rigettati dall’acqua, più bianchi delle ninfee stesse, luccicano i pesci morti pel caldo.

Sullo sfondo del lago appare ridente del suo bel verde il prato del giardino Barbavara degradante in dolce pendio fino a tuffarsi nell’acqua; campeggia la villa grande sulle casupole del paese retrostante raggruppate e confuse; più in là, un po’ al di sopra degli ultimi tetti, la cava grigia risplende al sole. In fondo alla piazza, rincantucciata ai piedi del monte, sta la chiesa e il campanile vecchio che si drizza a difesa di lei e della casetta del pievano e dell’orticello sottostante. Lungo il muro di cinta serpeggia la viottola sassosa che sale al monte, e da quella parte il campanile mostra il fianco e la cupola azzurra priva d’uno dei quattro pilastretti di sasso di cui un tempo era munita agli angoli...

Il 27 maggio del 1859, quantunque gli storici non lo dicano, soffiava un vento indiavolato e la popolazione di Montorfano, stata in agitazione tutta la notte, cominciava, spinta dalla curiosità, a sgattaiolar fuori alla chetichella dalle case barricate per aver notizie. Qualche coraggioso aveva passata la notte sul monte in vedetta, tutti s’eran armati di forche e di falci e qualcuno anche si pavoneggiava portando a bandoliera un vecchio fucilacelo o delle pistole alla cintura, armi tenute fin’ allora nascoste. Tutti eran sicuri della vittoria; c’era Garibaldi. Anzi il vecchio pa’ Ambrogio sorrideva tratto tratto con una cert’aria di mistero e di trionfo facendo tremare tra i denti la pipetta di legno. Non capiva più nella pelle per la voglia di far una confidenza al suo vicino coetaneo; finalmente lo trasse in disparte: “Sapete, le mie donne, stanotte, hanno cucito quel bandierone a tre colori, grande....„ e allargava le braccia con un gesto vago, “quello del 48. Vi ricordate? Ma zitto! e gli dava dell’occhio. A mezzogiorno tutti sapevano la storia del bandierone, tutti sorridevano, si strizzavano l’occhio e si ponevano l’indice sulle labbra; i giovani in crocchio già si disputavano l’onore di piantarlo e facevan congetture sul luogo, quasi volevano sforzar pa’ Ambrogio.

Ma le sentinelle in vedetta sul monte avevano annunciato soltanto, da lontano, verso S. Fermo il crepitìo delle fucilate e null’altro e aguzzavano gli occhi, ansiosi, appollaiati sugli alberi più alti; qualcuno anche, era scappato a Como.

Ma ad un fratto un gran scampanio s’alza dalla città sottostante insieme alle ultime fucilate; qua e là si vedono spuntare sopra i tetti dei tricolori. L’annuncio vola rapido e i contadini corrono sul monte a vedere. Ma e i tedeschi? I tedeschi eccoli là che spuntano dalla parte di Lora in ritirata su Lecco; passa l’artiglieria al trotto, lasciandosi dietro un nugolo di polvere, poi una lunga fila di fantaccini curvi, avviliti. Gli spiriti bellicosi si ridestano, si scuotono le forche e le falci: “Andiamo a scannarli tutti! „ si grida, ma i vecchi consigliano la prudenza.

I tedeschi si fanno sempre più vicini, più distinti e passano sfilando sotto al monte. Almeno che filassero via diritto! Ma i giovani vogliono far qualche cosa.
— Pa’ Ambrogio, fuori il bandierone!
— E dove lo piantiamo?
— Qua, sul monte, in alto, che lo vedano prima d’andarsene!

Questa volta pa’ Ambrogio precide la parola:
— Non li conoscete voi, i Croati; sono vendicativi e vigliacchi! Verrebbero certo a incendiare il paese, ad ammazzarci tutti!
Le donne tremano; dopo debole resistenza vince il parere più mite: “Piantiamolo sul campanile!„. E giù tutti; il bandierone è tratto in piazza in mezzo alla ammirazione e alle grida di gioia e agli evviva, poi, colla scorta degli armati, è portato nel campanile e su per la scaletta delle campane, poi ancora di fuori per quella di ferro ed eccolo sul cornicione esterno sotto la cupola. Tutti gli abitanti accorsi in piazza guardavano in su: “Legalo forte!„. Si grida a chi lo porta. “Legalo ad uno dei pilastretti di sasso„. “Lasciate fare a me!„ risponde la voce dall’alto affievolita dal vento.

E come fece bene! La gente, rimasta un po’ in piazza a contemplare l’opera, a poco a poco si sbandò. Il bandierone pareva pazzo di gioia per la ricuperata libertà, s’agitava senza posa, sbatacchiato dal vento, garriva splendido al sol di maggio. Ma, le corde eran salde, e i nodi forti non s’allentavano; solo il pilastretto tremava, ad ogni scossa e ad ogni voltar del vento.

 

(Foto Carlo Cicardi, 1907)

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Intanto s’era sul tramonto tutti s’erano ritirati a banchettare, le osterie eran piene; i cavallanti e quelli che venivano dalla città raccontavano fra la tensione d’animo generale i fatti della giornata e gli osti, portando il vino, inneggiavano all’Italia libera, a Garibaldi e imprecavano contro gli austriaci. Ad un tratto un gran fracasso venne ad interrompere la lauta cena riservata al parroco e a pochi invitati; accorsero subito nell’orticello e videro il bandierone che, adagiato mollemente sul pero fiorito, frullava, s’agitava ancora al vento con moto incomposto; attaccato all’asta del bandierone c’era il pilastrello di sasso sprofondato a metà in un’aiuola. E il sol ridea calando dietro al Monte Rosa.


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