C'ero.
Ero un bambino in quel “caldo sabato di luglio” del 1976.
Un altro secolo.
Un'altra storia. Forse. E ho tre ricordi nitidi. Il giorno dell'incidente con il fischio - durato alcuni secondi - e l'odore. Insopportabile. E che inquinò l'aria per alcune ore, almeno fino a sera.
Il secondo frammento risale a 10 giorni dopo, quando la notizia della fuoriuscita della nube tossica dall'Icmesa è ormai di dominio pubblico e i miei genitori decidono di “evacuarmi” (la mia famiglia non dovette lasciare la casa) e mi portano dagli zii a Meda (!) ma a nord della fabbrica che si trovava proprio al confine tra i due paesi.
Il vento, al momento della rottura del disco di sicurezza (sicurezza di chi??) del reparto “B” soffiava in direzione sud, sud-est. La zona dove abitavano i miei zii non era stata colpita. O, almeno, non il 10 luglio 1976 perché l'Icmesa produceva e inquinava dal 1948 (i lavori di costruzione dello stabilimento erano terminati un anno prima) e non c'erano all'interno dei suoi obsoleti impianti tecnici ventilatori che potessero dirigere gli inquinanti da Meda verso Seveso. Perché farlo poi?
C'era il fiume dove scaricare tutto quello che era possibile scaricare e alle lamentele della popolazione o delle autorità si rispondeva, spesso, con il denaro o con la minaccia dei licenziamenti. E il posto di lavoro era “sacro” nell'Italia post seconda guerra mondiale, nell'Italia degli anni '50. Nell'Italia del boom economico. Oggi.
In fondo quando morivano le pecore o gli animali si pagava e di tosse non è mai morto nessuno. Questi italiani! Sempre pronti alla lamentela invece di ringraziare chi aveva portato denaro e benessere! E comunque all'Icmesa non si inquinava! Parola di Givaudan Hoffman La Roche! Proprietari che vivevano in Svizzera.
Dove ordine e pulizia sono valori Sacri. E per gli ansiosi da presunto inquinamento c'era sempre il Valium (marchio registrato!) perché Hoffman la Roche teneva (e tiene ancora!) alla salute. E al profitto.
L'ultimo mio ricordo è legato al periodo successivo e che non può essere collocato in un periodo preciso. Almeno nella mia mente. Un ricordo fatto di divise e tute.
Erano quelle dei soldati chiamati a pattugliare la zona più contaminata, la “famigerata” zona A (c'era poi una zona B – non evacuata – e una zona di Rispetto, con tracce minori di diossina. Io vivevo in quest'ultima area ed ero “rispettato” quindi!). E quelle degli addetti alla bonifica.
Crescevo e loro erano lì, parte integrante del mio, del nostro, quotidiano e raccontavano, evidenziavano, una normalità “altra”. Durata, complessivamente, quasi 10 anni e che via via cercava di riportare la città ad una vita normale con la fine dei lavori di bonifica che terminano con la nascita del Bosco delle Querce, avvenuta nel 1983 e i lavori di costruzione del parco terminati tre anni dopo, nel 1986.
Sono rimasto. E, poco più ventenne, siamo all'inizio degli anni '90 dell'altro secolo, incontro un piccolo gruppo di donne e uomini che hanno deciso di impegnarsi per il bene della Città “adottando” un'area degradata, il Fosso del Ronchetto.
7,5 ettari lontani dal Bosco
delle Querce ma che rappresentano il desiderio di prendersi cura della città dove vivono. Seveso, appunto. Sono le socie e i soci del locale circolo di Legambiente, dedicato a Laura Conti, medica e all'epoca dell'incidente consigliera regionale in Lombardia e molto vicina alla Comunità.
Lei che arriva da Milano per cercare di comprendere. Per aiutare. Per proporre. Amata da pochi.
Avversata da molti. Lei, donna dalle
posizioni forti e dalle parole chiare su molti temi che la democristiana Brianza bianca non vuole ascoltare. Di cui non si deve parlare. Meglio tacere.
E lasciar passare il tempo.
E dimenticare: “Un anniversario da dimenticare”.
Così “Il Cittadino”, il settimanale locale cattolico più letto all'epoca, ricordava il ventesimo anniversario dell'incidente, il 10 luglio 1996. Le amiche e gli amici del Circolo sostengono invece che la rielaborazione di ciò che è accaduto nel 1976 e le sue conseguenze è un opportunità di crescita e di cura di una Comunità ancora dolente.
Nonostante la voglia di rimozione.
Crediamo, perché anch'io mi iscrivo a Legambiente, che la Storia sia uno strumento di sollievo e alla fine del secolo iniziamo ad elaborare un progetto che diverrà poi la colonna portante di un percorso durato più di 15 anni. Nasce il “Ponte della Memoria”. Iniziamo a ricostruire l'archivio sociale della “vicenda Seveso”. Ascoltiamo storie. Raccogliamo storie. Raccontiamo la Storia.
Entriamo al Bosco delle Querce. Il parco è aperto al pubblico dal 1996 ma quasi nessuno lo frequenta. All'inaugurazione l'allora presidente regionale Roberto Formigoni parla davanti al deserto (tranne le cosiddette Autorità e pochi obbligati non c'è praticamente anima viva).
Il parco è una sorta di “non luogo”. Io stesso che abito a poche centinaia di metri dall'ingresso non ci sono mai entrato.
Con il “Ponte della Memoria” inizia un percorso di rielaborazione e riappropriazione che porterà alla vera e propria apertura del Bosco nel 2004, quando, davanti a centinaia di sevesine e sevesini (durante la giornata poi continuo fu l'afflusso per visitare il percorso appena aperto), viene inaugurato il percorso della Memoria all'interno del parco, undici pannelli per non dimenticare. E sono tante le persone
che negli anni donano all'Archivio i propri documenti. Le scuole iniziano a chiedere di essere accompagnate al Bosco per conoscere. E il progetto trova il sostegno istituzionale del Comune di Seveso e della Fondazione Lombardia per l'Ambiente, la Fondazione nata nel 1986 proprio per valorizzare l'esperienza di Seveso e che, per la prima volta, sostiene economicamente un progetto per la Comunità.
Meglio tardi che mai.
Oggi, dopo tanti anni dedicati allo studio e alla valorizzazione della Storia della mia città, sono “lontano”.
Non racconto più Seveso. E nemmeno il Bosco delle Querce. Altri, se vorranno, potranno continuare. Non può esistere una narrazione esclusivamente individuale di una Memoria collettiva. E nemmeno una sorta di unica “voce ufficiale”.
Certamente c'è, a Seveso, ancora molto lavoro da fare affinché quanto seminato con il Ponte della Memoria continui a dare buoni frutti.
Da coltivare e per compiere, finalmente, altri passi in avanti e senza omertà o silenzi rispetto anche agli angoli meno chiari della vicenda.
O a quelli, volontariamente, taciuti anche dal sottoscritto – all'epoca responsabile del Progetto - perché non si dovevano alterare alcuni equilibri “sensibili”. Il Ponte era sostenuto dal Comune. Dalla Fondazione. La Brianza ha cambiato colore ma è solo un'apparenza perché nella propria intimità è sempre rimasta Bianca. Cattolica.
Reazionaria. Ed è meglio non stimolare nervi ancora scoperti come i risarcimenti o l'aborto (nel 1976 in Italia l'aborto non era ancora legale ma nella Bianca Seveso furono autorizzati gli aborti “a scopo terapeutico” con le donne che sceglievano questa strada sottoposte ad un vero e proprio processo, quasi una tortura. Senza possibilità di assoluzione.).
Tutto è Passato. Andiamo avanti. Fino ad un certo punto perché il processo di pacificazione non troverà pieno compimento fino a quando non si deciderà di saturare tutte le ferite. Senza tacere. Con i contributi di tutti. Di tutte.
Senza dimenticare il pericolo che, silenziosamente, incombe sulla Comunità: quello di un'autostrada che vorrebbe passare dove oggi c'è il Bosco delle Querce.
Sbancare i terreni mai bonificati. Quelli un tempo classificati in “Zona B” e dove, sotto, si trova la cancerogena diossina. Riportare a Seveso le tute bianche visto che all'interno del cantiere si dovrà operare in sicurezza.
Quando scrivo queste righe (giugno 2020) ci sono il progetto definitivo e la volontà politica di Regione Lombardia ma, per fortuna, non ci sono ancora i fondi.
E, nel frattempo, osservo il mio territorio dove, nel bene e nel male, ci sono le mie radici.
La mia vita. E sono preoccupato. E mi chiedo se tutto quello che abbiamo costruito negli anni sia stato utile perché, se dovesse concretizzarsi lo scenario devastante dell'autostrada Pedemontana Lombarda, dovremo rivivere la Storia.
Calerà il buio. Tornerà per noi l'incubo. E sarà una tragedia. Tutta italiana questa volta.
Massimiliano Fratter, autore del libro "Memorie sotto il bosco"