martedì 23 dicembre 2025
Il taglio degli alberi al Parco del Meredo spiegato bene
Negli ultimi giorni il Parco del Meredo e l’area della Porada sono finiti al centro di un acceso dibattito pubblico. Le immagini dei tagli di alberi, diffuse sui social e accompagnate da commenti spesso allarmati, hanno suscitato preoccupazione e rabbia tra molti cittadini che frequentano abitualmente il parco. Parole come “scempio”, “devastazione”, “polmone verde distrutto” ricorrono con frequenza e raccontano un disagio reale, che merita rispetto e attenzione.
Proprio per questo, come blog nato per tutelare il territorio del Parco Brianza Centrale (ora Plis GruBrìa), riteniamo importante provare a spiegare con calma e completezza che cosa sta accadendo, distinguendo tra l’impatto emotivo immediato e il significato reale degli interventi in corso. Non per difendere acriticamente le scelte fatte, ma per fornire elementi di comprensione che permettano un giudizio informato.
I lavori che stanno interessando il Meredo e la Porada non sono improvvisi né frutto di decisioni dell’ultimo momento. Il Parco GruBrìa li aveva annunciati pubblicamente già all’inizio di ottobre, spiegando che si trattava di interventi forestali programmati su diverse aree boscate di Seregno e di altri comuni del Parco. Gli interventi sono stati autorizzati da Regione Lombardia e affidati ad agronomi forestali incaricati dal Consorzio. Non si tratta quindi di un’operazione decisa o gestita direttamente dal Comune, ma di un progetto sovracomunale che coinvolge più territori e che rientra in una strategia di gestione del patrimonio forestale urbano.
Un altro elemento che spesso viene trascurato nel dibattito è la natura stessa dell’area interessata. Il Meredo e la Porada non sono un giardino urbano progettato, né un parco storico con alberature monumentali, ma un bosco cresciuto in gran parte in modo spontaneo all’interno di un contesto fortemente urbanizzato. Questo tipo di bosco, proprio perché nato senza una pianificazione forestale, presenta spesso una struttura sbilanciata, con poche specie dominanti e una presenza significativa di piante non autoctone o invasive. Lasciare tutto com’è, in questi casi, non significa necessariamente tutelare la biodiversità o garantire stabilità nel tempo.
Gli alberi che vengono rimossi in questa fase appartengono in larga parte a specie come robinia, ailanto, ciliegio tardivo e lauroceraso. Sono piante che hanno avuto un ruolo importante nel colonizzare aree degradate e che offrono anche benefici ecologici specifici, ma che allo stesso tempo hanno un ciclo di vita relativamente breve, una forte capacità di competizione e la tendenza, una volta adulte, a soffocare la crescita di altre specie. In un bosco maturo, la loro dominanza può impedire l’evoluzione verso una maggiore diversità vegetale e rendere l’insieme più fragile, anche dal punto di vista della sicurezza.
L’obiettivo dichiarato del Parco non è quindi quello di “tagliare alberi”, ma di modificare la struttura del bosco per creare le condizioni affinché possano affermarsi specie più longeve e stabili, come querce e carpini, capaci di garantire nel tempo una maggiore biodiversità e una migliore resilienza agli stress ambientali, compresi quelli legati al cambiamento climatico. È un processo che guarda a orizzonti temporali lunghi, incompatibili con l’immediatezza con cui siamo abituati a valutare lo spazio pubblico.
Gran parte dello sconcerto nasce infatti dall’impatto visivo che questi interventi producono nel breve periodo. Un bosco appena diradato appare spoglio, fangoso, attraversato da cataste di legna e ramaglie. L’ombra diminuisce, il colpo d’occhio cambia radicalmente e la sensazione è quella di una perdita irreversibile. In realtà, questa fase rappresenta un momento transitorio. Le cataste di legna lasciate sul posto non sono segno di incuria, ma servono a restituire sostanza organica al suolo e a creare microhabitat utili a insetti, anfibi e piccoli mammiferi. Anche la ricrescita del sottobosco, spesso percepita come disordine o degrado, è una componente fondamentale di un ecosistema sano.
Questo non significa che tutte le preoccupazioni siano infondate. Molti cittadini pongono domande legittime sui tempi di ricrescita, sulla dimensione delle nuove piantumazioni, sulla reale capacità delle giovani piante di attecchire e crescere in un contesto così urbanizzato. Tutto questo dipenderà in larga misura dalle manutenzioni future e dalla continuità delle cure previste dal progetto. È su questo aspetto, più che sul taglio in sé, che si giocherà la credibilità dell’intervento e su cui sarà giusto mantenere alta l’attenzione civica.
Nel dibattito sono emerse anche questioni complesse, come la diffusione di parassiti quali la Takahashia japonica o la Popillia, e il tema più generale dell’adattamento delle specie arboree a un clima che sta cambiando rapidamente. Si tratta di problemi reali, che non hanno soluzioni semplici e che richiedono un costante aggiornamento delle pratiche di gestione. La forestazione urbana oggi non può limitarsi a conservare ciò che esiste, ma deve cercare di aumentare la resilienza degli ecosistemi, anche attraverso scelte che nel breve periodo possono apparire impopolari.
C’è però un punto su cui è difficile non concordare con molti cittadini: la comunicazione. Interventi di questo tipo, soprattutto in aree così frequentate e amate, avrebbero richiesto un accompagnamento informativo più efficace. Un annuncio istituzionale pubblicato settimane prima non è sufficiente a preparare le persone a ciò che avrebbero visto. Sarebbero stati utili cartelli esplicativi sul posto, immagini di riferimento, incontri pubblici o aggiornamenti costanti sull’avanzamento dei lavori. Quando la comunicazione manca o è insufficiente, anche interventi tecnicamente corretti rischiano di essere percepiti come imposizioni calate dall’alto.
Il Parco del Meredo non è stato distrutto, ma sta attraversando una fase di trasformazione profonda. Questo non significa che tutto debba essere accettato senza spirito critico, né che non si debba vigilare sull’attuazione concreta del progetto. Significa però che non siamo di fronte a un taglio indiscriminato, bensì a un intervento inserito in una visione di medio-lungo periodo. Difendere il verde non vuol dire congelarlo, ma accompagnarne l’evoluzione con competenza, trasparenza e partecipazione. Ed è proprio su questi tre elementi che, oggi più che mai, vale la pena continuare a interrogarsi.
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