martedì 1 luglio 2025

Seregno e il clima che cambia

Antonello Dell’Orto accanto all’aiuola in fiore nel cortile della scuola primaria Aldo Moro a Seregno, questa primavera.

Un pomeriggio bollente, quasi irrespirabile, nel cuore del Parco Wojtyla di Seregno. Ci sediamo all’ombra di un albero con Antonello Dell’Orto, storico attivista di Legambiente Seregno, per scambiare quattro chiacchiere sul cambiamento climatico. In via Wagner, a due passi da qui, il termometro al suolo ha toccato i 50 gradi. Non è fantascienza, è la nostra realtà.

D: Antonello, ormai tutti parlano di cambiamento climatico… ma riguarda davvero anche una città come Seregno?
R: Eccome se ci riguarda. Non è più una questione lontana, roba da ghiacciai o deserti. È qui, ora. Le estati sono sempre più estreme, con giornate che sembrano forni e notti in cui non si riesce a dormire dal caldo. A questo aggiungi temporali violenti, lunghi periodi senza una goccia d'acqua… il clima sta cambiando davanti ai nostri occhi.

D: Ma a livello locale, cosa stiamo già vedendo di concreto?
R: Intanto, il verde urbano fa una fatica enorme. Parchi e giardini arrancano con queste temperature e la mancanza di pioggia. Le grandinate spaccano tetti, danneggiano le auto, rovinano i raccolti. E poi c’è l’aria: quando c’è alta pressione e tanto calore, peggiora. Questo ha un impatto sulla salute e anche sull’umore della gente. Ti senti più fragile, più in balìa degli eventi.

Giardino delle farfalle. Piazza Donatori di Sangue, Seregno

D: Quindi qualcosa possiamo farlo, anche nel nostro piccolo?

R: Assolutamente sì, e dobbiamo farlo. Piantare alberi è una delle cose più efficaci, ma serve anche cambiare mentalità. Evitare potature inutili, lasciare crescere le chiome, smettere di tagliare l’erba ogni due settimane come fosse un’erbaccia. L’erba protegge il suolo, mantiene l’umidità, ospita biodiversità. Tagliarla troppo spesso, specie dove abbiamo appena piantato alberi, può addirittura farli seccare.
E poi ci sono progetti concreti che già esistono: Legambiente Seregno, ad esempio, in pieno centro, in piazza Donatori di Sangue, ha realizzato e sta curando il Giardino delle farfalle. È una piccola oasi con fiori ed essenze scelte apposta per avere fioriture tutto l’anno. Anche se pochi lo sanno, quel giardino contribuisce a mantenere la biodiversità e a mitigare il clima in centro. E questa è una cosa importantissima, se pensiamo che tra il centro e il Parco del Meredo ci possono essere, in questo periodo, anche 7 gradi di differenza. Eppure c’è ancora chi pensa di costruire su terreni vergini… quando invece servirebbe più verde, non più cemento.

D: E chi ha solo un balcone o un giardino? Vale lo stesso discorso?
R: Certo! Ogni spazio verde conta. Anche un vaso può fare la differenza. Piantiamo fiori per api e farfalle, lasciamo crescere qualche cespuglio spontaneo, mettiamo una siepe. Ogni angolo può diventare un piccolo rifugio per la natura. È una rete fatta di tanti piccoli gesti, e ognuno può contribuire.

Esempio taglio a sfalcio ridotto. Fonte immagine: Comune di Milano

D: Una provocazione per chi storce il naso davanti all’erba alta?

R: Chi ha paura dell’erba? (ride) Davvero, perché ci dà tanto fastidio un prato verde e fiorito? Siamo diventati allergici al naturale, lo trattiamo come fosse disordine. Ma il selvatico è bellezza, è vita, è resistenza. Un prato lasciato libero non è incuria: è conoscenza, è rispetto. Magari dobbiamo solo imparare a guardarlo con occhi nuovi.

D: Da dove si comincia, allora?
R: Si comincia col guardarsi intorno. Osservare il proprio quartiere, il proprio giardino, i parchi della città. Capire che il cambiamento climatico non è solo una questione globale, ma anche molto locale. E le soluzioni, guarda caso, iniziano proprio qui. A Seregno.

D: C’è qualche esempio positivo a Seregno o nei dintorni da cui prendere spunto?
R: Certo! Ci sono scuole che hanno piantato alberi nel cortile, condomìni che stanno lasciando crescere le siepi, cittadini che hanno trasformato terrazzi in piccoli boschetti urbani. Non servono grandi risorse, serve voglia. E un po’ di fiducia nel fatto che ogni gesto ha un impatto.

D: E il Comune? Sta facendo la sua parte?
R: Ci sono segnali positivi, ma c’è ancora tanta strada da fare. Spesso mancano coraggio e visione. La transizione ecologica non può basarsi solo sulle buone intenzioni: servono piani concreti, investimenti, ma anche l’ascolto di chi vive la città ogni giorno. Noi di Legambiente ci siamo, e vogliamo continuare a dare il nostro contributo.

Uniti per fermare la Pedemontana: una grande mobilitazione per salvare il verde della Brianza


Il 4 ottobre alle ore 15:00 in Piazza Roma, a Monza, cittadini, associazioni, comitati e amministratori si riuniranno in una manifestazione pubblica per dire NO alla Pedemontana e chiedere con forza un ripensamento radicale del progetto. L’iniziativa, promossa da una rete di realtà locali impegnate nella tutela del territorio, si pone come un momento fondamentale di mobilitazione collettiva per fermare un’infrastruttura definita inutile, dannosa e costosissima.

Secondo i promotori della protesta, la nuova autostrada Pedemontana - che comporta una spesa pubblica superiore ai 5 miliardi di euro - non offre risposte concrete ai problemi di mobilità della Lombardia. Con un pedaggio che può superare i 20 euro al giorno tra Lentate e Agrate, il progetto finirebbe per servire solo pochi utenti, mentre scaricherebbe sull’ambiente e sulla collettività costi insostenibili.

Ma è soprattutto il prezzo ambientale a destare la maggiore preoccupazione: la Pedemontana andrebbe a distruggere l’ultimo grande corridoio verde della Brianza. Verrebbero compromessi il Parco GruBrìa (che perderebbe oltre un milione di metri quadrati), vaste aree naturali tra Lesmo, Arcore, Usmate, Camparda, i boschi del Parco dei Colli Briantei e il prezioso Parco Agricolo Nord Est, un baluardo per l’equilibrio ambientale del Vimercatese.

L’obiettivo immediato dell’iniziativa è bloccare l’avanzamento della tratta D-Breve e sospendere i cantieri delle tratte B2 e C, che da Lentate a Vimercate stanno già causando danni ambientali profondi e spesso irreversibili. La manifestazione vuole lanciare un messaggio forte: non è troppo tardi per fermarsi e scegliere un’altra strada.


La manifestazione del 4 ottobre rappresenta molto più di una semplice protesta: è un appello alla politica regionale affinché ascolti le esigenze reali dei territori e dei cittadini. È un’occasione per dimostrare che esiste un ampio fronte sociale che chiede una visione diversa, più intelligente, più equa e sostenibile dello sviluppo.

Gli organizzatori propongono investimenti mirati e lungimiranti nel trasporto pubblico: prolungare la metropolitana M5 fino a Monza, estendere la linea M2 fino a Vimercate, rafforzare la linea ferroviaria Carnate-Seregno e potenziare le tangenziali esistenti. Si tratta di soluzioni concrete che migliorerebbero realmente la mobilità e la qualità della vita senza distruggere il territorio.
Partecipare è fondamentale

Una grande partecipazione alla manifestazione del 4 ottobre sarà un segnale decisivo. Dimostrare che i cittadini non sono disposti a tollerare ulteriori ferite al proprio territorio è essenziale per spingere le istituzioni a cambiare rotta. Solo con un coinvolgimento attivo e visibile si può ribaltare una decisione calata dall’alto, figlia di un modello vecchio e insostenibile.

La manifestazione sarà il momento per unire voci diverse in un’unica richiesta: ripensare il futuro della Brianza partendo dalla tutela del verde, dalla partecipazione e dal buon senso. Fermare Pedemontana oggi significa costruire insieme un’alternativa migliore, davvero utile per tutti.

Ripensiamo il futuro della Brianza. Fermiamo Pedemontana.

 


 

La salute non si costruisce sul cemento. L’Ospedale di Seregno e il costo del nuovo: una lezione urbanistica per la Brianza

Area boschiva nel "Parco di Riconquista Naturale della Brianza", 2137

🚀 Cronache dal futuro (2137)
A cura del dott. Renzo L. Valgrana, Istituto per le Memorie Urbane dell’Alta Brianza - Anno 2137

Nel vasto archivio delle scelte urbanistiche compiute in Brianza durante il XXI secolo, la vicenda dell’Ospedale di Seregno occupa un posto emblematico, esempio plastico di come l’urgenza del “nuovo” abbia spesso prevalso sulla logica del riuso e sulla tutela del suolo.

Nel 2025, la comunità locale si trovò davanti a due opzioni: ristrutturare il vecchio ospedale al costo stimato di 30 milioni di euro, oppure edificare una nuova struttura ex novo per 70 milioni.[1][2]

L’ipotesi di costruire il nuovo ospedale si collocava nell’area sud-orientale di Seregno, in zone prevalentemente agricole prossime all’asse della Valassina, sebbene la localizzazione precisa non fosse stata ufficialmente definita nei documenti pubblici disponibili all’epoca.

Prevalsero le istanze di innovazione, efficienza e prestigio legate al concetto di “ospedale moderno”. Tuttavia, la decisione di costruire su suolo vergine significò sottrarre terreno agricolo, cancellare aree di biodiversità e contribuire a incrementare il fenomeno delle isole di calore, già all’epoca riconosciuto come una delle criticità ambientali più gravi per la Brianza.[3]

Già nel primo quarto del XXI secolo, l’evidenza scientifica era chiara: il verde urbano contribuisce a mitigare le temperature, ridurre l’inquinamento atmosferico e migliorare la salute mentale e fisica dei cittadini. L’Organizzazione Mondiale della Sanità sottolineava come la presenza di spazi verdi sia associata a una riduzione della mortalità prematura, a minori tassi di obesità e ad effetti benefici sulla salute mentale.[4]

La Brianza, nel frattempo, si trovava tra le aree a più alto consumo di suolo d’Italia. Secondo l’ISPRA, nel 2024 il consumo di suolo in Lombardia aveva raggiunto il 12,8% del territorio regionale, contro una media nazionale dell’8,6%.[5] In un simile contesto, ogni metro quadrato cementificato aveva un costo ambientale elevatissimo.

La storia fu anche segnata da un paradosso sanitario. Tra il 2060 e il 2090, il sistema sanitario italiano virò decisamente verso modelli di assistenza territoriale, domiciliare e tecnologicamente integrata.[6] I grandi ospedali monolitici divennero strutture sovradimensionate, troppo costose da gestire e in gran parte inutilizzate.

Così accadde anche a Seregno: l’ospedale nuovo, inaugurato nel 2032, entrò in crisi già verso il 2085. Nel 2102, la Regione Lombardia deliberò la sua definitiva chiusura e l’area fu destinata a interventi di rinaturalizzazione, finanziati dal Fondo Europeo per la Rinaturalizzazione Urbana.[7]

Oggi, nel 2137, su quello stesso suolo crescono boschi planiziali e prati stabili, parte integrante del Parco di Riconquista Naturale della Brianza. È un luogo dove la cittadinanza cammina, respira aria pulita e ricorda, non senza amarezza, le scelte del passato.

La vicenda dell’Ospedale di Seregno lascia insegnamenti chiari:
  • Ristrutturare è spesso meglio che costruire. Il riuso dell’esistente riduce costi economici e ambientali e garantisce maggiore resilienza.
  • Il suolo è una risorsa non rinnovabile. Una volta impermeabilizzato, non si rigenera facilmente e il danno si riverbera sul clima, sulla biodiversità e persino sulla salute pubblica.
  • Salute ambientale e salute umana sono due facce della stessa medaglia. Non si può progettare sanità senza considerare l’ecosistema in cui vive la popolazione.[8][9]
Seregno pagò un prezzo alto: circa 40 milioni di euro in più per un ospedale che visse meno di sessant’anni e un consumo di suolo di cui si continuano a pagare le conseguenze. Tuttavia, la natura ha lentamente ripreso possesso di quei terreni, restituendo alla città un nuovo equilibrio che forse, seppure tardi, ha insegnato che la salute si costruisce anche proteggendo la terra sotto i nostri piedi.

Riferimenti bibliografici