martedì 14 aprile 2020

Intervista "impossibile" sulla pandemia influenzale del 1918 in Italia

Eccesso della mortalità del 1918 sulla normale

La pandemia in corso del Coronavirus viene paragonata spesso all'epidemia di influenza "spagnola" dello scorso secolo. Volevamo approfondire l'argomento, in particolare sulla sua diffusione in Brianza. Non potendo consultare gli archivi storici locali abbiamo sfogliato le annate 1918, 1919, 1920 del "Cittadino" senza ottenere risultati significativi. Tra le pubblicazione d'epoca ci siamo però imbattuti in un prezioso studio intitolato "La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra" redatto nel 1925 dal prof. Giorgio Mortara. Trattandosi di un volume di quasi 600 pagine abbiamo pensato di stralciarne alcune parti e di trasformarle in una intervista. Le domande sono nostre, le risposte, a parte qualche piccola modifica, sono tratte dal volume citato.

D.: Da quale anno l'influenza "spagnola" ha incominciato a mietere vittime in Italia?

R.: L’influenza non ha presentato fino a tutto il 1917 aumenti di mortalità che, per la loro gravità o per la loro localizzazione geografica, potevano apparire dipendenti dalle speciali condizioni del periodo bellico. L’ampiezza delle variazioni che si osservano da anno ad anno nel numero dei morti nelle singole regioni non sorpassa i consueti limiti; solo nel Veneto il 1916 è contrassegnato da un numero di morti relativamente alto (867, in confronto a 351 nel 1914), che in parte può essere attribuito direttamente alla presenza dell’esercito. Ma si tratta di una variazione ancora relativamente piccola. È col 1918 che l’influenza assume estensione ed intensità straordinariamente gravi in tutte le regioni, senza eccezione.

D.: Si sono riscontrate differenze sulla mortalità nelle varie regioni d'Italia?

R.: Certo, abbiamo calcolato saggi di mortalità regionali, per mettere in evidenza la distribuzione geografica dell’epidemia, o meglio pandemia, influenziale del 1918. Abbiamo redatto una tabella in cui abbiamo riportato anche i numeri assoluti dei decessi, per indicare la partecipazione delle varie regioni al tributo di 274.041 morti pagato dalla popolazione italiana all’epidemia: ricordiamo che tal numero va molto aumentato, per ragioni che meglio illustreremo più avanti.

Nota 1 (Veneto): Esclusi i comuni invasi
La mortalità per influenza varia da un minimo di 5,0 per 1000 abitanti nel Veneto ad un massimo di 11,9 nel Lazio; sebbene essa sia stata molto alta in tutte le regioni, presenta dunque una vasta gradazione di micidialità. Le più alte proporzioni di morti sono date dalle regioni meridionali, dalla Sardegna e dal Lazio; le più basse dalle regioni settentrionali e centrali e dalla Sicilia. Sono rimaste oscure le cause di questa ripartizione geografica della mortalità: sembra che l’epidemia si sia propagata da sud a nord, ma non è questa una circostanza sufficiente a spiegare la maggiore mitezza della sua manifestazione nelle regioni settentrionali. D’altronde nella stessa Italia meridionale qualche regione presenta una mortalità relativamente bassa: tale la Campania, dove pure l’esistenza della grande agglomerazione urbana di Napoli, così densamente popolata, crea condizioni favorevoli alla propagazione dei contagi.

D.: Questo punto ci interessa molto. Ci può illustrare meglio le differenze che ci sono state tra le varie regioni?

R.: La mortalità della Campania - 8 per 1000 abitanti - è praticamente uguale a quella della Toscana, dove gli abitanti sono in gran parte disseminati per le campagne e vivono in condizioni igieniche assai migliori. La presenza di un grande centro urbano potrebbe essere invocata per spiegare l’altissima mortalità del Lazio (11,9 per 1000 abitanti); ma la maggiore facilità di diffusione dei contagi si è avuta invece nel Veneto. Qui infatti la presenza di un poderoso esercito e i conseguenti frequentissimi scambi di uomini tra il fronte e le retrovie, e tra quella zona e le altre parti d’Italia, uniti all’affollamento di profughi nelle città meno prossime al fronte creavano le condizioni ideali per la diffusione di una epidemia.  Infine, i movimenti di truppe necessari per la preparazione di una grande offensiva contrastavano ogni serio tentativo di profilassi. Aggiungasi che, proprio nel periodo culminante dell’epidemia, fu iniziata la battaglia di Vittorio Veneto. 

Lo sforzo imposto alle truppe combattenti per la conquista delle linee nemiche e per la rapidissima marcia attraverso le Venezie, lo spostamento della maggior parte dell’esercito in zone che si trovavano in disastrose condizioni igieniche dopo l’occupazione nemica, l’affluenza alle retrovie di centinaia di migliaia di prigionieri, il tumultuario ritorno di centinaia di migliaia di nostri militari, reduci dalla prigionia - questi e quelli laceri, sporchi, affamati, esausti, portatori dei più svariati agenti patogeni - sembravano costituire circostanze eminentemente favorevoli ad una tremenda diffusione ed intensificazione dell’epidemia influenziale nel Veneto. 

Invece la mortalità nell’esercito combattente è stata relativamente mite, per quanto si può arguire dalle poche informazioni disponibili, e la mortalità nel Veneto più bassa che in ogni altra regione; si noti a questo proposito, che la proporzione di circa 5 morti per 1000 abitanti risulta dal rapporto fra il numero dei morti nel Veneto (eccettuati i comuni invasi per i quali non si hanno notizie) e la popolazione civile presuntivamente presente nel Veneto non invaso, e quindi è certamente esagerata, perchè fra i morti è compreso un certo numero di militari. 

Se si aggiunge al denominatore del rapporto la forza dell’esercito operante nel Veneto, la proporzione dei morti nella regione stessa scende a circa 3‰: proporzione ora troppo bassa, perchè non tutti i morti per influenza provenienti dalle truppe che operavano nel Veneto, anzi solo la minor parte di essi, sono registrati nelle statistiche delle cause di morte. Tenuto conto di queste circostanze e della presenza di prigionieri e di reduci dalla prigionia, nell’ultimo bimestre, si può ritenere che la mortalità per influenza della popolazione veneta non abbia superato di molto la proporzione del 4‰, circa tre volte inferiore a quella della Sardegna, che pure si trovava in condizioni propizie ad un rigoroso isolamento dal resto del paese.

D.: Ci sono state ricadute influenzali negli anni successivi?

R.: Al contrario di altre malattie epidemiche, le cui manifestazioni, rincrudite durante la guerra, sono poi ritornate prontamente nei limiti normali, l’influenza ha mantenuto anche negli anni successivi all’armistizio una diffusione ed una gravità maggiore di quella prebellica. Questo peggioramento è stato comune a tutte le regioni italiane, senza eccezione alcuna: per metterlo in evidenza in modo sintetico abbiamo redatto una tabella dove indichiamo anzitutto il numero dei morti in ciascuna grande divisione territoriale, negli anni dal 1919 in poi, in confronto col 1918 e col 1912-17.


Come si può vedere la prima grande ondata epidemica - quella del 1918 - si è prolungata anche nel 1919; le successive ondate del 1920, del 1922, del 1923 sono, in tutte le divisioni territoriali, gradualmente decrescenti. 

L’analisi geografica conferma la progressiva attenuazione delle manifestazioni epidemiche nelle successive ondate, che sembrano corrispondere ad altrettanti successivi periodi d’un unico ciclo. Fra la seconda e la terza ondata, l’anno 1921 costituisce un periodo di tregua: la mortalità per influenza ritorna al livello normale in tutte le divisioni territoriali. Che il ciclo epidemico non fosse ancora compiuto, attestano i dati per il successivo biennio. E sembra, dalle notizie preliminari, che anche nel 1924 e nel 1925 la mortalità per influenza si sia mantenuta superiore al livello d’anteguerra.

D.: In una delle precedenti risposte ci ha detto che la stima delle morti causate dall'influenza è di molto superiore ai dati ufficiali. Ci può dire qualcosa in più?

R.: Nel triennio 1911-13 il numero medio annuo dei morti nella popolazione italiana è stato di circa 681.000. Supposto costante il livello della mortalità, nel quadriennio bellico (1915-18) la popolazione civile avrebbe dovuto dare una media annua di circa 660.000 morti. Invece si sono avute le seguenti cifre (ottenute col sottrarre dalle cifre totali dei morti indicati nelle variazioni della popolazione i numeri dei morti militari compresi in tali cifre):
  • 1915       732.421
  • 1916       708.544
  • 1917       688.463
  • 1918    1.148.535
Complessivamente nel quadriennio bellico la popolazione civile ha avuto 3.277.963 morti, in luogo dei 2.640.000 che avrebbe avuto nell’ipotesi dinanzi esposta. L’eccesso di 638.000 morti si riduce a poco più di 600.000 se si tolgono i 30.000 morti per il terremoto del gennaio 1915: in cifra tonda diremo 600.000. 

Aggiunto l’eccesso di morti della popolazione militare (525-530.000 fino all’11 novembre 1918 e altri 10.000 circa dal 12 novembre al 31 dicembre 1918), il totale eccesso di morti del quadriennio 1915-18 si può stimare a 1.140.000 circa.

Questa non è che una prima grossolana stima. Soltanto dopo un’accurata analisi della mortalità saremo in grado di tentare una stima più precisa.

D.: Immaginiamo che la raccolta dei dati non sia stata semplice...

R.: Certamente. L’epidemia influenziale del 1918 ha infierito in alcuni luoghi con tale violenza da mettere in crisi l'apparato statale, per la forzata assenza del personale i servizi sanitari e di stato civile. Da ciò un forte aumento nel numero delle morti la cui causa non ha potuto essere accertata.

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